E’ stata davvero una triste overdose a portarci via Prince? I media americani riferiscono che già sei giorni prima della sua morte l’aereo privato nel quale viaggiava aveva dovuto bruscamente atterrare, in Illinois, per consentirgli un ricovero d’urgenza per problemi di oppiacei. Al di là degli inevitabili aspetti scandalistici rimane il fatto che la scomparsa di Prince rappresenta una perdita fortissima per la musica. La musica in quanto tale, non “nera”, né “bianca”, semplicemente musica, senza confini.
Prince è stato infatti uno di quei musicisti che hanno saputo lanciare un ponte fra i generi musicali, e i relativi pubblici. Come Michael Jackson, come Lenny Kravitz, come, andando un po’ più indietro, Sly and the Family Stones, Diana Ross, James Brown, Steve Wonder. Ma la sua musica, nei momenti più alti, è stata forse anche più complessa di quella di tutti costoro, perfetta sintesi di quanto di buono aveva prodotto nei decenni precedenti la tradizione black – il funk, il R&B, il soul, la disco, il blues, che peraltro dagli anni 60 in poi era diventato anche white, poi anche il rap – e quella più propriamente pop-rock, Beatles e Hendrix in testa.
La carriera dell’artista di Minneapolis, classe 1958, era cominciata nei tardi anni 70. L’apice arrivò però con 4 album fra i più memorabili del decennio successivo, incisi con i Revolution, la sua band migliore: Purple Rain, (1984), che fu anche un film di successo, con l’hit omonimo, un lento straziante, condito con un memorabile assolo di chitarra (attenzione, un lento, appunto, un blues contemporaneo, nonostante la sua musica fosse solitamente piena di ritmo); Around the world in a day, (1985), uscito in sordina, eppure capace di conquistarsi due dischi di platino, prodotto “sperimentale”, ricchissimo di suggestioni, dalla Swinging London all’India, attuale ancora oggi; Parade, (1986) con un altro grande successo, Kiss; ed infine Sign’o the Times (1987), la summa della sua carriera, un doppio album che può essere tranquillamente collocato accanto ai grandi capolavori del rock come Sergent Pepper’s dei Beatles, eletto da Time magazine miglior disco degli anni 80.
Il genio di Prince, dovendo scegliere, è racchiuso qui, in questi quattro lavori (forse anche nella successiva Lovesexy, che chiude la fase più felice della sua carriera). Ciò che conta è in questi “solchi”, come si diceva quando i dischi erano in vinile.
E contano i suoi spettacoli, la sua capacità di stare sul palco, il suo stile (che lo ha portato via via a riesumare il look di Hendrix ma anche a collaborare con Donatella Versace). Conta la sua voce, i suoi memorabili falsetti. La sua chitarra. Il suo essere, anche, polistrumentista, e al tempo stesso, sul palco, un ballerino pirotecnico.
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