Da ragazzo, a Padova, Alberto Biasi restava ipnotizzato a guardare i cerchi concentrici con cui le gocce di pioggia facevano increspare l’acqua. Un movimento che in seguito catturò in opere come Piove con il sereno (1999), attualmente esposta alla GR Gallery di Lower Manhattan per la mostra Alberto Biasi A Dynamic Meditation che, dal 31 marzo al 22 maggio, presenta opere provenienti da tre delle sue serie: Rilievi Ottico-Dinamici, Torsioni e Assemblaggi.
Nel 1959, Biasi, insieme ad un gruppo di artisti d’avanguardia, fondò l’innovativo Gruppo N. Nel loro manifesto si definivano “disegnatori sperimentali” e miravano a liberarsi dalla pratica artistica tradizionale per sviluppare un nuovo linguaggio che combinasse pittura, scultura, architettura e produzione industriale. Piuttosto che concentrarsi sugli sforzi del singolo artista, si interessavano ad una forma d’arte che fosse il frutto di un lavoro di gruppo. E infatti firmavano le proprie opere non con i nomi dei singoli artisti, ma con il nome del gruppo.
Nel 1967 il gruppo si sciolse, ma negli ultimi cinquant’anni Biasi ha continuato a sperimentare illusioni ottiche. L’utilizzo di materiali tradizionali come la pittura, e materiali non tradizionali come le strisce in PVC crea dinamiche opere bidimensionali e tridimensionali che creano un effetto vertigine sui sensi dello spettatore. Le opere sono statiche, ma le colorate forme geometriche si animano davanti agli occhi dello spettatore in movimenti circolari, vorticosi e vibranti.
In una conversazione con La Voce, Biasi rivela le ragioni per cui il suo lavoro fino a non molto tempo fa non era apprezzato, racconta perché preferisce non usare la parola “cinetica” per le sue opere e spiega che è stata la natura a ispirarlo.

Come è cambiata la scena artistica italiana negli ultimi cinquant’anni?
“Chiaramente la platea di pubblico è cambiata in maniera totale. È molto diversa. I giovani di oggi rispetto ai giovani di ieri vedono e interpretano in maniera diversa. Di fronte a un’opera immaginano delle cose che i loro padri non immaginavano. Per farti un esempio semplice: quando uno guardava una delle mie opere negli anni Sessanta gli si ubriacavano gli occhi e non riusciva a vedere. E forse le hanno definite ‘optical’ proprio per questo, perché ubriacavano gli occhi. Ma evidentemente non era quello il motivo per cui facevo queste cose. l’ubriacatura avveniva per un motivo molto semplice: la gente era abituata a vedere solo arte figurativa. Nella rappresentazione di un paesaggio, per esempio, la costruzione è fatta per figure e sfondo. Si diceva allora che un quadro era ben riuscito perché aveva profondità, quindi prospettiva. Il pubblico quindi si avvicinava anche a queste mie opere cercando di vedere più piani. Ma queste opere sono costruite in maniera tale che se tu guardi due dita allineate, dopo il primo dito, ne vedi due, non uno solo. E quindi lo spettatore aveva una specie di mancamento e per quello rimaneva ubriacato: dava fastidio, e parecchio. Oggi tutti sono abituati a guardare con un maggiore distacco dall’opera. È un modo di vedere diverso. Qui tu vedi per esempio un’opera che fa vedere delle gocce che in realtà non ci sono. Un’altra opera ti fa vedere delle forme che si espandono, dilatano e restringono, ma questo non esiste nella realtà: è una costruzione puramente mentale che tu fai dell’opera. In questo senso è cambiato molto. E poi la tecnologia, gli apparecchi elettronici, i computer, tutte queste cose hanno cambiato il modo di vedere e sentire. Si è capito che la realtà non è più solo quella della fotografia e si è capito che questo tipo di ricerca artistica fa vedere delle cose che anticamente non si vedevano. Adesso apprezzano, una volta non apprezzavano per niente”.
Apprezzano l’innovazione?
“Il movimento da qualcosa di statico, nessuno immaginava che fosse possibile ottenerlo. Invece che ‘ottico-cinetici’, io chiamo i miei lavori ‘ottico-dinamici’. Perché è un po’ come la dinamo della bicicletta, quella rotellina che fa girare la ruota e produce energia elettrica. In realtà l’energie elettrica non è nella dinamo, è un prodotto della dinamo ed è determinato dal fatto che si combinano insieme rotazione di una calamita dentro un avvolgimento di filo elettrico. Questo crea un’elettricità. Qui la forma è determinata dal fatto che combini insieme immagini di sfondo e immagini di primo piano che interferiscono tra di loro e tu, muovendoti davanti a quelle immagini, interagisci a tua volta e percepisci movimento”.
Quindi non ha senso parlare di arte cinetica oggi?
“Quest’arte viene chiamata ‘arte cinetica’, però è improprio chiamarla arte cinetica. In realtà l’arte cinetica è quella che si muove realmente. Io ne ho fatte di opere di arte cinetica, ma nella terminologia anglosassone l’espressione non descrive quello che è esposto, per esempio qui. L’arte realmente cinetica è quella che ha un motore o qualcos’altro che la muove, come per esempio i lavori di Calder. C’era uno studioso Italiano molto bravo, Giulio Carlo Argan, che ha scritto molto sulla storia dell’arte. Lui la chiamava arte gestaltica. La gestalt tedesca è la percezione. Questo è un fenomeno percettivo. L’apparato che entra in gioco non è solo l’occhio ma il cervello. Qui il cervello crea un movimento dove in realtà un movimento non c’è. [Questa arte] eccita l’immaginazione, ma non è arte cinetica. Altr o termine usato in Italia è arte programmata, nel senso non della ripetizione, ma della programmazione elettronica del computer che ti permette di fare vari lavori con la stessa matrice”.
È cambiata la sua concezione dell’arte dai tempi in cui fondò il Gruppo N?

“Negli anni Sessanta molti giovani europei hanno cominciato a concepire l’arte come un’attività assolutamente normale, non fuori dalla norma. Non ci voleva genialità, bastava avere una certa attitudine ed essere delle persone normali. L’artista era considerato alla stregua di quello che fa il pane. Se l’artista lavorava bene diventava artista, se no nulla. Il gruppo viene fuori per sostenere questa concezione dell’arte. L’arte diventa una cosa di normale amministrazione. Solo che nel tempo questa cosa non si è radicata. La Pop Art ha portato nuovamente questo concetto dell’artista come persona al di sopra del normale, geniale. In questo senso direi che non abbiamo vinto. Questo è successo nel 1974 quando la Pop Art ha vinto al Biennale di Venezia. Leo Castelli, che era il sostenitore della Pop Art, è riuscito a imporre a livello mondiale questa ideologia della genialità dell’artista. Per questo la mia arte, che è un’arte di ricerca e che è molto vicina alla scienza, ha avuto difficoltà. Solo ultimamente, in questi anni, è stata rivalutata”.
Come reagisce oggi il pubblico al suo lavoro?
“Alla fine del Novecento, ricordo che un direttore di un museo mi raccontava che aveva fatto una mostra del Gruppo N e del Gruppo Zero Tedesco. Lui diceva che i giovani che vedevano quelle cose erano convinti che fossero state fatte in quel periodo, non cinquant’anni prima. Ancora adesso succede. Molti giovani che vedono queste cose pensano che siano reazioni di questo momento, mentre è vero che sono state fatte oggi ma sono modifiche, delle variazioni di opere che sono state fatte negli anni ‘70. Queste opere esposte qui hanno tutte dei precedenti negli anni ’70 o anche ’60”.
Il suo lavoro è molto organico. Sembra quasi ci sia un tentativo di catturare le pulsazioni della natura…
“In effetti è vero. Per esempio mi ha sempre affascinato il fuoco. Non so dirti cosa provo, però io rimango lì incantato a guardarlo per d

elle ore. Di fronte alla pioggia è la stessa cosa. Quando ero ragazzino rimanevo per ore a guardare le gocce che cadevano nelle pozzanghere. Fanno quella bolla che si espande e si allarga. Dall’oserrvazione di questi fenomeno naturali che ho cominciato a fare, un po’ per caso, queste cose qui. Pensa che le mie prime opere le ho realizzate con delle carte forate che servivano per gli allevamenti di bachi da seta… Ho lavorato tanto anche sulla luce per esempio. Ce n’è una [opera esposta nella mostra] in cui tu ti avvicini, rimani appoggiata per qualche secondo alla parete e l’opera ti ruba l’ombra. Quando vai via, l’ombra rimane. È un fenomeno legato alla fosforescenza e all’eccitazione che la fosforescenza riceva da una luce particolare che si chiama luce nera. È un fenomeno fisico, in un certo senso è una trovata, ma mi ha permesso di far vedere che l’opera, tante volte, non è l’opera che fa l’artista ma l’opera che fa lo spettatore, il pubblico. Infatti quella io la chiamo la ‘non opera’, perché la fanno quelli che sono dentro l’opera. Dopo di che, lascia che sia la tua fantasia a fare tutto”.
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