In foto lo scrittore Erri De Luca
Pur avendo un quarto di sangue americano, a New York Erri De Luca non ci era mai stato. Ci è arrivato qualche giorno fa, con la semplicità e il sorriso leggero che lo contraddistinguono, per presentare la versione inglese del suo libro «Il giorno prima della felicità», edito negli Stati Uniti da Other Press con la traduzione di Michael F. Moore. Lo scrittore e poeta, uno dei più amati sia in Italia che all’estero, ha parlato per circa due ore alla Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University, condividendo con il pubblico riflessioni sulla letteratura, sulla storia e sul futuro.
«È la prima volta che vedo New York», ha raccontato. «Per ora le sensazioni sono contrastanti: da un lato mi sento spaesato, dall’altro ho scoperto una strana e inspiegabile intimità con i luoghi e con gli oggetti». In un certo senso, per De Luca si è trattato di un ritorno alle origini. «Parte della mia famiglia viene dagli Stati Uniti», ha detto. «Mia nonna era originaria dell’Alabama, ma ha vissuto a New York. Poi venne in Italia e si sposò con mio nonno, un napoletano. Mio padre era il più americano di tutti e quattro i figli: si sentiva americano al 51%, napoletano al 49%». «Quando l’Italia andò in guerra lui scelse di combattere con gli alpini, pur essendo un uomo di mare. Fu sempre grato alle montagne: salvarono il suo tempo e gli evitarono di combattere contro gli statunitensi. Credo che la mia passione per l’arrampicata derivi da quella stessa gratitudine», ha continuato De Luca, riunendo in poche frasi decenni di storia individuale e collettiva. Nel 1951 il padre venne a New York e trovò un lavoro. Da qui scrisse una lettera alla moglie chiedendole di raggiungerlo, ma lei non ci pensò un istante e rispose con un secco no. Dopo alcuni mesi, l’uomo rientrò in Italia e non parlò mai più del sogno americano. «La libertà e gli spazi di cui aveva bisogno lì trovò nei libri e nella letteratura», una passione che contagiò il piccolo Erri.
«Ho trascorso a Napoli i primi 18 anni della mia vita», ha raccontato durante la conversazione moderata da Silvia Bizio, corrispondente negli Stati Uniti per La Repubblica e L’Espresso. «La Napoli degli anni Cinquanta non era una città per bambini: aveva il più alto tasso di mortalità infantile di tutta Europa, una selezione innaturale dove chi si salvava andava a lavorare anche a 4- 5 anni. Io ho avuto la fortuna di non morire e non dover andare a lavorare così presto. É stato un privilegio per certi versi pesante, che mi ha fatto sentire “separato” da quel mondo pur essendoci dentro. Ho trascorso tantissimo tempo chiuso in una stanza piena di libri – la stanza di mio padre – dove c’erano silenzio e quiete. Un ambiente completamente diverso dal caos e dalla pluralità di voci che c’erano fuori, tra le vie di Napoli. Durante quegli anni ho iniziato a pensare che i libri fossero qualcosa di forte, capace di isolare e di resistere agli assedi. Non è un caso se, nella casa bombardata di mio padre, solo loro si sono salvati».
La guerra è un elemento che ritorna spesso nelle storie di De Luca scrittore, a cominciare da «The Day Before Happiness». Un po’ perché i bombardamenti lui li ha vissuti in prima persona, a Belgrado, dove si è recato nel ’99 come volontario di pace perché «non potevo sopportare quell’atto di terrorismo da parte della Nato e del mio Paese».
Support authors and subscribe to content
This is premium stuff. Subscribe to read the entire article.
Discussion about this post