Natalia Ginzburg pubblica da Einaudi, nella primavera del 1963, un libro che segna la storia del linguaggio e del costume italiano, Lessico Famigliare. Ha 47 anni e lavora presso la casa editrice che suo marito Leone ha contribuito a fondare nel 1933. E’ nata Levi, figlia di un nord colto, borghese e progressista: il padre triestino (anatomo-patologo che forma, tra gli altri, tre Nobel: Levi Montalcini, Dulbecco, Luria), la madre lombarda con padre socialista amico di Turati. Delle due famiglie, quella d’origine e quella che si gode sino al febbraio 1944 quando Leone è ucciso dalla tortura nazista nel carcere romano di Regina Coeli, scrive in Lessico, impastando il racconto della sua vicenda e della storia patria con i tic e le parole delle persone, gli odori e i sapori dell’ambiente.
Quando il libro esce, Natalia è, nella testimonianza di Ernesto Ferrero, critico e saggista all’epoca appena entrato da Einaudi, “non alta, solida e minuta al tempo stesso, zazzera corta con qualche filo grigio a chiudere un volto severo, l’aria assorta, la voce cantilenante, rauca per le troppe sigarette, vestiti dimessi, tacchi bassi… si apriva a rari sorrisi… non conosceva invidie, gelosie, calcoli, retropensieri, meschinità”. Una donna compresa del senso della vita, che ha vissuto la guerra e scelto di militare in una sinistra che sa incapace di mutare l’Italia ereditata dal fascismo. Con i libri narra, in epoca di boom e motorizzazione, di sradicamento dell’Italia contadina e invenzione di quella industriale, di nuclei industriali e nessi autostradali che si addensano sul territorio, una civiltà destinata ad essere annichilita nei decenni successivi, sotto il maglio feroce di corruzione, carrierismo, crimini economici e politici.
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