Nell’inverno del 1962 io e altre migliaia di ragazzini undicenni come me eravamo follemente innamorati di Rita Pavone, una minuscola diciassettenne torinese dai capelli rossi che, dopo la vittoria al Festival degli Sconosciuti di Ariccia, organizzato da Teddy Reno, aveva partecipato a una puntata del programma televisivo Alta Pressione, in onda il giovedì sera sulla neonata seconda rete televisiva. Nel novembre successivo “Pel di carota”, com’era stata subito soprannominata, era stata poi ingaggiata per Studio Uno, l’importante programma del sabato sera su Rai 1, diretto da Antonello Falqui. L’idea del regista era di affidare alla cantante uno spazio tutto suo, da dedicare ai giovanissimi. Le aveva addirittura creato uno speciale corpo di ballo, I Collettoni, composto da otto ragazzi e otto ragazze che introducevano, ballando e cantando, l’ingresso in scena della piccola star. Ogni settimana Rita presentava una nuova canzone, tanto che, alla fine del programma nacque un 33 giri che aveva all’interno pezzi come La partita di pallone, Come te non c’è nessuno e Alla mia età.
Quella ragazzina era davvero scatenata. Aveva una voce potente e particolarissima e si muoveva a scatti, come una trottola impazzita. Una vera potenza. E noi ragazzini avevamo tutti perso la testa per lei, perché ci sembrava una di noi, una che ce l’aveva fatta. Non era bella, anzi direi, era piuttosto bruttina e sgraziata, ma a me sembrava bellissima, per quanto i suoi occhi trasmettevano luminosità e il suo corpo energia allo stato puro. La sua famiglia di provenienza era molto modesta e viveva alle case Fiat di via Chiala. Rita Pavone aveva altri tre fratellini e aiutava economicamente la famiglia con lavori saltuari in una camiceria.
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