Da oltre centocinquanta giorni il più antico teatro di Roma, il Valle, inaugurato il sette gennaio 1727, vive la più riuscita delle sue rappresentazioni, una vitalissima occupazione, messa in atto da un centinaio di artisti, cittadini, lavoratori e lavoratrici dello spettacolo, un movimento autorganizzato, a seguito della soppressione dell’Ente Teatrale italiano che ne era il gestore e in risposta alla chiusura o alla probabile cessione a privati.
Devono averlo pensato, giunti qui, anche Dario Fo, premio Nobel per la letteratura nel 1997 con questa motivazione: perché, seguendo la tradizione dei giullari medievali, dileggia il potere restituendo la dignità agli oppressi, e Franca Rame, sua compagna di vita e d’arte, che è in atto tra le scene, il palco, la platea di questo storico teatro un’espressione di determinazione democratica che conta pochi precedenti, portata avanti con un entusiasmo, una disciplina interiore in grado di far convogliare le creatività presenti verso quella formazione massacrata dai governi, dalle loro suicide politiche di austerità che hanno cancellato i finanziamenti pubblici per la cultura.
Uno spazio riappropriato che significa tante cose, un diverso tempo interiore che legge il presente, la storia, la vicenda del quotidiano italiano per le strade della politica e dei cittadini che quasi mai procedono in sintonia, percorsi accidentati in cui crisi e povertà decidono la vita della gran parte della gente e il teatro ha quasi l’obbligo di raccontarla questa espropriazione, questo male antico che cancella solidarietà e condivisione in nome di logiche altre, distanti dai bisogni e le necessità. Dunque autoproduzione culturale e programmazione partecipativa disegnano un percorso che rigetta metodi produttivi e sistemi decisionali come li abbiamo conosciuti, in nome di una diversa idea di società. Il progetto, in via di compimento, è quello di costituire una Fondazione Teatro Valle Bene Comune, il cui statuto conferma il carattere partecipativo della piattaforma rivendicativa.
«Quando abbiamo occupato questo teatro, – racconta una giovane -, lo abbiamo fatto principalmente per essere visibili e riconoscere noi stessi anche come lavoratori dello spettacolo, e non solo come artisti, anche come persone che hanno dei diritti. Questo spazio scelto perché era un caso esemplare, un teatro dell’Eti, che aveva simboleggiato negli anni l’impegno dello Stato, del settore pubblico, ad investire in un teatro nazionale, in forme che noi sappiamo essere state tutte smantella-te. E allora il quattordici giugno scorso è stato un primo atto di resistenza per dire che noi ci opponiamo a che venga dato in gestione a dei privati, come è successo al Quirino, divenuto quel che Brecht definirebbe un teatro gastronomico».
«Poi, – ha aggiunto un altro artista -, abbiamo iniziato a chiederci quali fossero le forme possibili per finanziare la ricerca, la cultura, l’arte, lo spettacolo in Italia, consapevoli di non voler invocare l’assistenzialismo dei finanziamenti a pioggia degli ultimi quarant’anni, che presentano, però, tanti problemi, spesso le piccole e medie compagnie devono rinunciare ai finanziamenti per via dei numerosi vincoli, assai più numerosi delle opportunità, con conseguente spreco di denaro pubblico in cattivi investimenti.
Si sono interrogati, loro, su come sia possibile che la cultura, l’arte rimangano di tutti, non siano soggetti al commercio, e,
nel contempo, non siano burocratizzati dalle amministrazioni, dagli assessori, dai ministeri che spesso ne sanno niente e poco si interessano al lavoro artistico e alla ricerca».
La fondazione sarà una fondazione del tutto anomala che quasi non si potrà più chiamare “fondazione”, i princìpi che la informeranno sono quelli della gestione partecipata, per cui il pubblico, la cittadinanza non sono percepiti soltanto come spettatori che vengono a vedere lo spettacolo, ma veramente riconoscono nel teatro la propria agorà, ricostruendo intorno adesso una polis, un modo diverso di vivere e di convivere.
Dario e Franca, a sentire queste voci d’incanto e di amarezza, di lotta e di speranza, rivivono il tempo dell’occupazione, anni Settanta, a Milano della Palazzina Liberty, di proprietà del Comune, in cui tutto nasceva da un dialogo, un dibattito, si decideva insieme il tema da svolgere in quegli spazi autogestiti, mettendo insieme il divertimento, l’emozione e la didattica, qualcosa che servisse agli studenti, agli operai, alle donne.
Una immagine di Dario Fo e Franca Rame
Support authors and subscribe to content
This is premium stuff. Subscribe to read the entire article.
Discussion about this post