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La distruzione di Albany firmata Rockefeller

In programma al Socially Relevant Film Festival NY venerdì 18 marzo il documentario The Neighborhood that Disappeared

Chiara BarbobyChiara Barbo
The Neighborhood that Disappeared,
Time: 4 mins read

Il quartiere scomparso è il South End di Albany. È accaduto nel 1962, e non è semplicemente accaduto bensì è stato voluto e attuato dall’allora governatore dello Stato di New York, Nelson A. Rockefeller, in seguito appoggiato anche dallo storico sindaco di Albany Erastus Corning (in cambio pare di una qualche, chiamiamola così, agevolazione economica…). Questa la storia raccontata in The Neighborhood that Disappeared, documentario di Mary Paley.

Il governatore Rockefeller ha messo in atto una delle più atroci catastrofi architettoniche e soprattutto sociali nella storia dello stato. In un attimo ha raso al suolo un intero quartiere: case, negozi, ristoranti, chiese, scuole, strade, tutto. Un quartiere di immigrati, in gran parte italiani ma anche irlandesi, tedeschi, libanesi, ebrei, un melting pot molto simile, seppur in scala diversa, a quello che era il Lower East Side di New York. Sono stati demoliti oltre 1.000 edifici, chiusi e distrutti oltre 350 esercizi commerciali, sfrattate 3.600 famiglie, quasi l’8 per cento della popolazione di Albany: nello specifico una popolazione multietnica che quelle strade e quei palazzi li aveva costruiti con le proprie mani, così come quei negozi e quei caffè dove la gente lavorava, andava a fare la spesa, si trovava a chiacchierare. Quasi da un giorno all’altro quell’8% della popolazione è stato mandato via dalle proprie case e disperso altrove, pochi soldi in cambio. Un piano messo in atto senza chiedere alcuna consulenza, senza avviare alcuno studio, senza chiedere alcun permesso. Chi non accettava il denaro e se ne andava, poteva restare e vedere la propria casa abbattuta dalle ruspe, è successo. L’eminent domain procedure law lo permetteva. Mary Paley e John Romeo, attraverso bellissime immagini d’archivio e numerose interviste, ci raccontano un mondo che non esiste più: “Nel mio documentario voglio rievocare quel mondo – spiega Mary Paley – perché le voci di tutte quelle persone sono rimaste inascoltate”. Oltre 9.500 persone. Racconta uno dei tanti italoamericani intervistati, quelli arrivati veramente ad Albany con la valigia di cartone, o quelli nati da padri arrivati a loro volta con la valigia di cartone: “All the little people, contadini, negozianti, sono stati completamente obliterati”. L’espressione che usa effucacemente descrive quel che è successo, come ben raccontano le immagini del documentario, per far spazio al’imponente Empire State Plaza, una gelida mostruosità di marmo, piani di uffici, corridoi, sale riunioni, uffici del governo dove la gente oggi si avvicina solo se deve, o se ci deve andare a lavorare. Un enorme complesso che non ha senso, non ha cuore, non ha niente a che vedere con la città e tanto meno con la sua storia e con la gente che qui ci viveva.

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Chiara Barbo

Chiara Barbo

Scrivere di cinema o scrivere il cinema? Possibilmente tutti e due. Dalla critica cinematografica alla sceneggiatura passando per la produzione, al di qua e al di là dell'oceano, collaboro con La VOCE di New York e con Vivilcinema, con la Pilgrim Film e con Plan 9 Projects. E anche con altri. Ma per lo più penso, immagino, ricerco, scrivo, organizzo in modalità freelance. Insieme a tanti altri, faccio parte della giuria del David di Donatello. New York è stata una scelta. New York è intensa, vitale, profonda e leggera, pacchiana e intellettuale, libera, creativa, è difficile, è bellissima, ed è la città più cinematografica del mondo.

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