Purity, il nuovo romanzo di Jonathan Franzen, da poco pubblicato anche in Italia, non mi ha convinto. Se voleva essere un missile lanciato contro il mondo di Internet, trovo sia stata più efficace la raccolta di saggi Come stare soli (pubblicata in Italia da Einaudi, come il resto della produzione di Franzen). Se invece Purity costituisce una nuova manifestazione del grande romanzo americano (se non del grande romanzo realista tout court), l’impressione, alla prima lettura – e temo non ve ne saranno altre – è che sia strutturalmente inferiore sia rispetto a Le correzioni sia anche a Libertà. Tuttavia, essere inferiore rispetto a due capolavori del genere non ne fa un cattivo romanzo: ci sono alcune parti – in particolare quelle che hanno per protagonista Tom Aberant, un giornalista d’inchiesta, e quelle berlinesi – davvero molto avvincenti. Altre invece vanno dal fastidioso all’indigeribile, in particolare Moonglow Dairy, che narra dell’incontro in Bolivia fra la protagonista, una stagista di nome Pip (nome accettabile in Dickens ma non necessariamente qui, soprattutto se appiccicato ad un personaggio simpatico come un’infezione da mononucleosi) e l’eroe del web Andreas Wolf, che come tutti sanno è l’alter-ego di Julian Assange.
Complessivamente intesa, Purity è un’occasione colta solo in parte e sono convinto che fra 10 anni chi guarderà retrospettivamente all’opera di Franzen giungerà alla stessa conclusione. Ma procediamo con ordine, conformemente all’implacabile rigore che Franzen ha applicato alla costruzione del suo romanzo-fiume (un rigore che gli va riconosciuto, ma che forse, in dosi così massicce è anche responsabile di quell’eccesso di controllo che si avverte a volte, procedendo di pagina in pagina. Del resto i detrattori di Franzen hanno sempre sostenuto che lui è solo tecnica: un giudizio, sia chiaro, del tutto ingeneroso).
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