Quando un personaggio pubblico muore, bisogna mettersi in guardia: la viltà, talvolta, sempre la retorica sono in agguato. Di Gian Roberto Casaleggio, un osservatore che volesse essere sincero e, perciò, rispettoso dell’uomo che ci lascia, potrebbe rilevare un carattere più di altri suo: era un uomo lontano. Non tanto, o non solo, per la sua ritrosia ad apparire in pubblico. Giacché, se non è stato certo il front-man Grillo, che si propone nelle forme eterne dell’agorà, della plastica e fisica esibizione di sé: voce volto corpo movimento, era però senz’altro divenuto noto non meno del primo. Ma la sua visibilità era quella di un’icona sullo schermo: fissa, discreta e indispensabile.
Tuttavia, per quanto le suggestioni simboliche siano potenti, Gian Roberto Casaleggio era un uomo. Nonostante l’assidua fede digitale e informatica; nonostante la sua pronosticata dissolvenza della vita fin lì vissuta sul pianeta, anno 2054, in una dimensione di conoscenza che si voleva pacificata, asettica e costantemente rigeneratrice; nonostante in Gaia – un gioco, ma forse no, come giocando e non giocando diceva – lo spazio e il tempo fossero acquietati all’ombra della rete. Era un uomo, ed era un italiano.
Un italiano, se decide di occuparsi della comunità in cui vive, vale a dire, di “fare politica”, trova un terreno già dissodato, arato, seminato, coltivato per lunghissimo ordine di anni. E, anche volendo, non può inventarsi niente.
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