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Primo Piano
April 17, 2011
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Precari in divisa

Valeria SabatinibyValeria Sabatini
Time: 4 mins read

Giovani di belle speranze si diceva. Già si diceva perché quando si arriva a trenta, trentadue anni siamo già nella categoria degli adulti, mentre le belle speranze quelle pure si sono perse per strada. Sono i precari, non precari qualsiasi pure loro messi piuttosto maluccio. I precari in questione sono quelli delle forze armate, e parafrasando Woody Allen si potrebbe dire che neanche questi stanno tanto bene. Sono circa ventisettemila, soldato in più soldato in meno arruolati con la cosiddetta ferma breve che dopo, tre, cinque o anche nove anni con la divisa addosso si ritrovano nella condizione di essere mandati a casa a fare i disoccupati. Finiscono in tutti i corpi, anche quelli speciali ma non riescono a passare effettivi perché i concorsi sono pochi, perché i soldi che ogni anno la finanziaria assegna per la difesa non coprono tutto.
Il bilancio Difesa 2011, fissato in 14.327,6 milioni mostra un trend nominale positivo rispetto ai 14.295,0 milioni del 2010. Bisogna però ricordare che appena nel 2003 lo stesso era di oltre 23 miliardi. Nessun altro grande dicastero ha subito una riduzione analoga. Ventisettemila persone, militari, ragazzi che a trent’anni di età non sanno ancora cosa fare nella vita, persone che ancora percepiscono una paga giornaliera e che devono farsi i conti con i giorni del mese, poiché si sa, a volte può capitare febbraio che ne ha 28 e lì son dolori. Parliamo di persone che non possono accedere ad un finanziamento poiché "Trattasi di personale non vincolato a carattere stabile e continuativo"(dicitura rilevabile sullo statino di ogni precario).
Prendiamo ad esempio come se la passano nell’Esercito, qui l’ultimo concorso per passare effettivi si è tenuto nell’autunno di due anni fa. 3392 i posti disponibili. Pochi comunque. Loro però non demordono, questi over 30 in procinto di tornare a fare i bamboccioni a casa provano a far sentire le loro ragioni, alternano momenti di rabbia e frustrazione ad altri di pura autoironia. Su Facebook questi poveri disgraziati hanno aperto una pagina dal titolo che è tutto un programma: Adotta anche tu un precario, adotta un vfb dell’Esercito Italiano. Chissà, si saranno detti, se funziona per i cani funzionerà anche per noi. Al di là delle battute però per questi giovani uomini e donne l’avvicinarsi della scadenza del loro periodo di ferma significa trovarsi di fronte all’unica prospettiva di essere destinati a fare i disoccupati con possibilità pari allo zero di riuscire ad essere presi, forse anche come magazzinieri all’Ikea. Già perché se tu passi 9 anni della tua vita, subito dopo la scuola con una divisa addosso, l’unico mestiere che impari è quello del soldato e una volta fuori trovare un lavoro, quando già a venti anni è un’impresa, diventa una mera speranza.
Il volontario in ferma breve vive in una specie di limbo, non è un militare a tutti gli effetti perché si vede precluse le possibilità di avanzamento di carriera, e anche nelle relazioni con i superiori viene visto come un figlio di qualche regolamento minore. "E’ assurdo vedere come dopo diversi anni dall’introduzione dalla scomparsa della leva obbligatoria e l’introduzione delle forze armate composte esclusivamente da personale professionista, alcuni comandanti trattino il personale volontario quali sottoposti asserviti alle proprie volontà, e non come dei professionisti – denunciano alcuni militari di stanza nelle caserme degli Alpini in Friuli 8° RGT Alpini "Battaglione Tolmezzo" di Venzone nella provincia di Udine, – come se in alcune caserme non si sia mai passato dalla vecchia gestione da naja alla nuova gestione di esercito di professionisti".
L’essere precario porta anche a questo, a non essere visto come qualcuno nel diritto di conoscere ciò che gli può servire per migliorare la sua posizione. "I militari non vengono in alcun modo informati dei propri diritti né con comunicazioni verbali né con circolari o vetrine di avvisi – continuano – ma la cosa più assurda è che siamo poco informati sulle domande dei concorsi ai quali potremmo partecipare. Viviamo in uno stress quotidiano, ripresi per come portiamo l’uniforme o per una basetta più lunga del solito. Ciò che ci amareggia di più – dice C. trent’anni, sorta di portavoce tra i suoi commilitoni – è vedere come vengono gestite le selezioni per le missioni all’estero. Le missioni a cui partecipano le truppe di Venzone sono composte sempre dallo stesso personale, mentre la maggior parte dei militari di stanza a Venzone, tutti uomini ben addestrati non ha mai preso parte a nessuna operazione all’estero". 
Per ragioni che sono ovvie questi ragazzi che raccontano le loro esperienze non se la sentono di mettere in loro nome. Temono conseguenze. Ed anche il rendere pubblico certi malesseri può significare vedere pregiudicata la loro posizione. "Non è raro – conclude chi parla anche per gli altri – che il personale venga punito o per meglio dire viene messo in condizione di sbagliare in modo che quando presenta una qualsiasi domanda, di trasferimento ha pochi punteggi per andare via. E così passiamo anni lontani da casa, alcuni di noi con la famiglia anche a mille chilometri di distanza. E se ci va male del tutto oltre a non avere la famiglia tanti di noi sono destinati a non avere più neanche questo lavoro".
Uno stato delle cose che poco esalta la condizione delle nostre forze armate attraversata evidentemente da una serie di malesseri che si possono anche tramutare in episodi infimi e degradanti a scapito dei tanti impegnati con onore e lealtà nelle missioni all’estero. Com’è successo lo scorso ventisette e ventinove marzo, quando durante dei controlli di routine circa mezzo chilogrammo di hascisc è stato scoperto nei fucili "rientrati" dalla missione in Afghanistan alla caserma dell’Ottavo reggimento alpini di Venzone. Un brutto fatto, che non deve sminuire la passione e i grandi risultati ottenuti da migliaia di nostri soldati nelle zone di guerra ma che è anche un campanello di allarme su qualcosa che non funziona.

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Valeria Sabatini

Valeria Sabatini

Nata in Calabria nel 1971 cresciuta in Umbria, da piccola ero sicura che sarei andata alle Olimpiadi come ginnasta. Non ci andai, ma la passione per il tappeto elastico è rimasta. Scoprii che mi piaceva scrivere Ho iniziato la mia attività di giornalista in Emilia Romagna. Testate nazionali e locali. Sono stata direttore editoriale di una pubblicazione mensile di Reggio Emilia, curato uffici stampa e cataloghi d’arte. Nel 2004 mi trasferisco per un anno in California e giro gli States, raccolgo le mie esperienze in un diario personale. Mi piace vivere tra due culture, quella italiana e quella americana, prendere il meglio di entrambe ed osservare con meno pregiudizi ai difetti. Nel 2011 incontro quello che diventerà mio marito, un ufficiale dell’Airforce che ha voluto chiamare nostro figlio Leonardo, come il Maestro. Mi trasferisco definitivamente negli Usa, a Las Vegas dove insegno italiano e sono press coordinator per un centro culturale italiano.

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