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September 25, 2011
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September 25, 2011
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MEDICINA/ Haiti-Roma e ritorno

Romina VincibyRomina Vinci
Time: 4 mins read

 

Nazaire ha 34 anni, corporatura esile, tratti delicati, indossa con fierezza il camice bianco. Da bambina sognava di diventare ostetrica, e la sua determinazione l’ha premiata. Adesso di professione fa la neonatologa, ed è una delle migliori ecografiste del Bambino Gesù di Roma, come ci dice sorridendo il dottor Andrea Dotta, responsabile del dipartimento di terapia intensiva neonatale dell’ospedale capitolino. Levasseur di anni ne ha 40, nel suo paese natale ha lasciato due figlie femmine, e fa l’infermiera da oltre 11 anni.
Anche Antoine è un’infermiera: zigomi scavati e tratti più marcati, di recente ha spento le sue trentuno candeline, non è sposata, non ha figli e, tra le tre, è la “peperina” del gruppo.
Oltre al francese maneggia con disinvoltura l’inglese, e c’è chi assicura che sia in grado di parlare anche l’italiano, sebbene lei non confermi né smentisca.
Nate e vissute ad Haiti, Naziare, Levasseur e Antoine lavorano presso l’ospedale pediatrico Saint Damien di Port au Prince, nosocomio gestito dalla Fondazione Francesca Rava.
Le incontriamo nel primo pomeriggio di un calda giornata di settembre, presso le strutture del Bambino Gesù di Roma dove, da luglio, si trovano impiegate nell’ambito di un programma di formazione del personale, medico e infermieristico, dedicato alla neonatologia di Haiti.
Un progetto reso possibile grazie alla collaborazione tra la Fondazione Francesca Rava, che in Italia rappresenta la N.P.H. (Nuestros Pequeños Hermanos) e il Bambino Gesù di Roma. E’ il dottor Andrea Dotta ad illustrarci i contenuti dell’iniziativa: “Il contatto tra la Ong e il nostro ospedale pediatrico è stato immediato dopo il terremoto del 12 Gennaio 2010, e decidemmo di sostenere la nascita di un reparto di neonatologia ad Haiti”. “Il Saint Damien – continua il medico italiano – ha fatto registrare un boom di
nascite abnorme, passando dalle trenta mensili dello scorso anno, fino ad arrivare all’attuale quota di quattrocento parti, con un tasso di patologie molto alto”. Da qui la decisione di non limitarsi a mandare risorse, ma realizzare un programma di più lunga scadenza, di formazione del personale.
Nazaire e Antoine avevano partecipato l’ottobre scorso già ad un training di un mese a Varese presso il reparto di Neonatologia guidato dal dottor Agosti e dalla dottoressa Francescato presso l’Ospedale del Ponte e ora sono tornate in Italia per completare e continuare la loro formazione. Dopo questo training in Italia infatti a fine ottobre la dottoressa e le due infermiere torneranno nel loro paese natale, pronte per tramandare le conoscenze acquisite al resto dello staff della neonatologia del Saint Damien. Sulle loro spalle una forte responsabilità, le tre donne non lo nascondono, e si considerano fortunate per questa opportunità: “Stiamo imparando tanto, l’organizzazione dell’ospedale è impeccabile, ed i macchinari all’avanguardia – dice Antoine – la gente è socievole, gli usi e costumi italiani mi piacciono”.
Il racconto si ferma di getto quando chiediamo loro di tornare con la mente al 12 Gennaio 2010. La voce si interrompe, lo sguardo si assenta, la mani si stringono, la destra afferra la sinistra, con forza, come per sostenersi a vicenda. “Preferisco non rispondere”, ci dice Antoine freddamente. “Sto cercando di dimenticare, ho perso delle persone care in quei terribili minuti”, risponde Naizaire. Levasseur invece si limita a scrollare la testa, in segno di disapprovazione. Perché si tratta di un muro di dolore troppo alto da scalare, una ferita che difficilmente riuscirà a cicatrizzarsi.
Una botta tremenda, una scossa di 7.0 della scala Richter quel pomeriggio di Gennaio ha dato il colpo del ko ad Haiti, un paese che già vantava il triste primato di essere il più povero delle Americhe, mietendo oltre duecentocinquanta mila vite umane. Dieci mesi dopo il terremoto è arrivato il colera ad aumentare in modo esponenziale il numero delle vittime, le stime parlano di cinquemila decessi, ed oltre duecentocinquanta mila contagi. E’ impresa ardua operare in contesti simili, e la dottoressa Naizaire non usa mezzi termini per dirlo: “E’ difficile essere un medico ad Haiti, perché non riesci a fare tutto quello che vorresti, non ci sono sufficienti macchinari ed attrezzature”.
Con il suo operato la Fondazione Francesca Rava è un punto di riferimento nel paese, e non si occupa solo di fornire assistenza sanitaria. Grazie al contributo dell’azienda Boccadamo, ad esempio, la Fondazione sta costruendo delle abitazioni per il poverissimo quartiere di Citè Soleil e, a compimento del progetto, la piccola via che le casette andranno a costituire si chiamerà Rue Boccadamo.
Alla domanda su cosa significhi la parola ricostruzione ad Haiti, venti mesi dopo la terribile scossa, le tre donne fanno quadrato: “C’è ancora tanto da fare, nel privato qualche passo in avanti c’è stato – affermano – ma è ancora poco”. Le loro risposte divergono, invece, quando le chiamiamo ad interrogarsi sul proprio futuro: la dottoressa Naizaire dice di sentire una sensazione positiva, che le porta a pensare di aver intrapreso la giusta strada. Anche Antoine e Levasseur sono intenzionate più che mai a continuare il loro cammino, entrambe vogliono specializzarsi ancor di più, Levasseur per poi tornare ad Haiti e portare un sostegno concreto, Antoine invece sogna altri paesi: lei si considera una cittadina del mondo.

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