La Sardegna ricomincia dal sardo e dalle nuove tecnologie per superare questo periodo di crisi che la vede protagonista di due tristi record: il tasso di disoccupazione e la dispersione scolastica. La tradizione e l’innovazione per provare a ribaltare quel dato che registra trentanove sardi su 100 senza lavoro e tantissimi ragazzi costretti abbandonare le aule scolastiche prima della formazione completa. Abbiamo incontrato l’assessore della pubblica istruzione, beni culturali, informazione, spettacolo e sport, Sergio Milia (nella foto in basso) che oltre a spiegarci quella che è stata definita la “rivoluzione digitale didattica”, ha parlato del suo rapporto con gli immigrati sardi, con le attività di promozione dell’isola all’estero e la seconda giovinezza che sta vivendo la letteratura dialettale. Assessore, non solo Grazia Deledda. Al Salone del Libro di Torino eravate presenti con un vostro stand. Come è andata? «Bene. Con vari eventi abbiamo presentato le proposte di numerosi autori sardi. L’interesse del pubblico è stato ampio. In generale, c’è un’attenzione ritrovata per le lingue minoritarie, forse dovuta anche alla legge 482 che prevede il loro insegnamento nelle scuole. Noi abbiamo un’offerta molto ampia, basti pensare che ci sono più di 100 premi in lingua sarda, il più antico è quello di Ozieri. In un momento di difficoltà, tornare indietro e pensare a chi eravamo aiuta». Ecco, in un momento di crisi in che modo sarà valorizzata e salvaguardata la lingua sarda? «Prima di tutto, abbiamo delle risorse che ci permettono di tenere in piedi il patrimonio dei beni culturali. Investiamo quasi 22 milioni di euro perché funzionino le 300 biblioteche. In particolare però per la salvaguardia della lingua abbiamo attivato un mega progetto, la “Scuola digitale”. Il ministro della Pubblica Istruzione, Francesco Profumo, l’ha assunto come Progetto Guida Nazionale. L’obiettivo è dotare tutte le scuole dell’isola di strumenti informatici, come le lavagne digitali nelle aule e i tablet per gli insegnanti e gli alunni». Quali sono i tempi e di cosa si tratta? «Contiamo di partire già dall’anno prossimo. Allo stato attuale, abbiamo cablato tutte le aule, portando quindi internet nelle scuole. La Scuola Digitale si muove su due binari: primo quello delle infrastrutture e quello dei contenuti. Inizierà presto la formazione dei 18 mila insegnanti per abituarli alle nuove tecniche di insegnamento. Per quanto riguarda i contenuti: i programmi saranno tradotti in tre lingue: italiano, inglese e sardo. Investiremo poi 8 milioni di euro per la realizzazione di materiale esterno inerente la storia e la cultura sarda. Inoltre, daremo ai precari il compito di aiutarci con i corsi di preparazione. E’ anche un progetto sociale: ci sarà lavoro per tante persone». Quanto costerà e cosa cambierà in concreto? «E’ uno sforzo che supera i 100 milioni di euro. Però dopo esserci confrontati anche con il mondo della scuola ci siamo convinti che ne vale la pena. Servirà a combattere la dispersione scolastica. Non possiamo dare la colpa solo alle famiglie se molti ragazzi abbandonano presto la via dell’istruzione. Anche il ministero è convinto che il sistema scolastico non è più al passo con i tempi. Ci sarà la digitalizzazione, la modernità non solo della didattica, ma anche dei mezzi per diffonderla. Tutto il nozionismo sarà compreso in pillole digitali. Questo non vuol dire che spariranno del tutto i libri, ma saranno ammortizzati i costi. Noi diamo circa 18 milioni di euro l’anno per i contributi ai testi. Questo vuol dire che a poco a poco il costo di questo progetto si pagherà da solo, risparmiando appunto sui libri in formato cartaceo». Siete sicuri che questa operazione servirà a diminuire la dispersione scolastica? «Sì, perché siamo convinti che sia necessario rivedere il modo di fare didattica, agendo però anche sulla struttura edilizia che è ormai obsoleta». Non servirebbe anche puntare di più sulle lingue, sull’integrazione europea e mondiale a livello scolastico. Uscire dall’“isolamento” del nostro insegnamento? «Lo stiamo facendo. Abbiamo già due licei europei, uno a Cagliari, l’altro sarà attivato presto a Sassari. Questo tipo di scuole che rispecchiano gli standard europei sono poi alla base, ad esempio, dei master in inglese svolti all’estero. Con questo diploma ci si può iscrivere in qualsiasi Università europea». Capitolo estero: in che modo diffondete l’immagine della Sardegna nel resto del mondo e che rapporto avete con gli immigrati sardi? «Abbiamo molti progetti legati alle comunità che stanno fuori dall’isola. E’ un rapporto molto forte. Per quanto riguarda la promozione, siamo consapevoli che c’è bisogno di più incisività per rafforzare la nostra immagine. Non basta portare fuori solo il folklore. Recentemente, ad esempio, abbiamo aperto un Sardegna Store a Roma; altri due sono attivi già a Milano e a Berlino. Sarà uno spazio espositivo dedicato alle produzioni d’eccellenza sarde. Ci sarà l’artigianato, ma soprattutto momenti di incontro per eventi culturali. Sarà una bella vetrina per attirare il resto d’Italia, ma anche tanti stranieri». Poi ci sono i nostri monumenti, i parchi nazionali poco sponsorizzati… «Esatto ad esempio quello dell’Asinare, abbandonato da 10 anni. Ma non tutto dipende dalla Regione. Ci sono molti vincoli di legge e che arrivano dalle infrastrutture che ci fanno pagare un dazio molto grande per quello che potrebbe essere il nostro ruolo nel mediterraneo. In periodi di crisi se si impedisce di far arrivare la gente, a causa dei prezzi alti dei trasporti, le eccellenze rimangono inesplorate. I vincoli sono troppi, i soldi pochi. Solo un esempio: avevamo raggiunto un accordo per far sì che le Statue Giganti Restaurate di Monti Prama rappresentassero l’Italia all’Expo di Seul. All’ultimo momento la sovrintendenza ha negato la possibilità di trasporto, senza motivare la decisione». Il costo dei trasporti ci rema contro, ma anche l’arte nell’isola attraversa un momento buio. Il Teatro Lirico, ad esempio, rischia di chiudere. «La storia del teatro è particolare. Diciamo che il nostro sforzo è stato incredibile e che loro hanno speso soldi che non potevano spendere, facendo allestimenti che forse andavano oltre le loro potenzialità. Hanno un deficit di 28 milioni di euro. Li ho costretti a fare un piano industriale, devono rivedere la loro politica». Non sono solo loro a penare nel mondo dell’arte… «Sappiamo che investire in questo settore significa contribuire alla crescita e creare nuovi posti di lavoro. La situazione è difficile anche a causa della legge sullo spettacolo che si rivolge ai soli professionisti, ma in queste maglie larghe si infilano anche i dopolavoristi. Quindi le risorse che dovrebbero servire a pagare le buste paga delle persone che vivono di questo mestiere, spesso vengono frammentate in mille rivoli e date a persone che non dovrebbero prenderne».