E siamo arrivati pure a questo. Al sermone inacidito, al ghigno sagrestano, alla maledizione digrignata fra bava e bile. Alla caccia della lussuria colpevole, della carne corruttrice, dell’alcova che dissolve virtù e anima. Uno quasi non ci crede. Con il diritto della Repubblica, i suoi apparati, i suoi palazzi, piegati ad annusare umori liquamosi, a sprofondare nelle pieghe del peccato. Un compiacimento livoroso e un cavillare leguleio a tessere la filigrana rugginosa e farlocca di un invasamento da portineria in tocco e pettorina. Da rimpiangere, come tesori perduti, ferocia domenicana e scaltrezza gesuitica.
Come se le pire purificatrici, l’Inquisizione di ogni luogo e tempo, i tribunali speciali, i processi rivoluzionari, non avessero avuto tutti un fondamento giuridico, formalmente legittimo. Come se il confine fra libertà e tirannia, imperfetta democrazia e compiuta tirannide non venisse infranto proprio da aule di tribunale invase dalla fazione, da un potere coercitivo, quello eterno, plumbeo statutario dei ceppi e della gogna, asservito ai demoni della nettezza ultramondana e superomistica. Come se tutta una secolare vicenda di accuse e punizioni, non avesse visto la legittimità formale, ciò che si è compiuto in nome della Legge, umiliare la civiltà dell’individuo esaltando la barbarie istituzionale, una prepotente ragione collettiva soggiogare la gracilità solitaria dell’errore.
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