Il Governo Letta-Alfano ha approvato un Decreto-Legge ricco di previsioni sanzionatorie e processuali, su svariate materie: molestie e minacce reiterate (c.d. stalking), molestie informatiche, violenze negli stadi, ma, soprattutto, l’omicidio in cui sia vittima una donna. Tutte queste previsioni hanno in comune una caratteristica: annunciano indispensabili innovazioni in realtà ampiamente superflue, dato che intervengono su un già robusto e articolato quadro normativo.
Consideriamo il reato-star di questo tonitruante decreto, il c.d. femminicidio. Nel caso dell’omicidio riguardante una donna, in primo luogo, era ed è già presente nel Codice Penale una circostanza aggravante che contempla proprio la disparità di forze e, in genere, di condizioni, fra vittima e carnefice: è la c.d. minorata difesa, per cui chi, nel commettere un qualsiasi delitto (quindi anche l’omicidio), approfitta di un qualsivoglia stato di inferiorità della persona offesa, commette un delitto aggravato da questo approfittamento; in secondo luogo, uccidere “una donna in quanto donna” è, esattamente, uccidere per un “motivo abietto”, cioè tale da ripugnare alla comune coscienza di una comunità, ed è un’altra aggravante; infine, se il fatto è commesso dal padre contro la figlia, dal figlio contro la madre, dal marito contro la moglie, è pure prevista una terza aggravante, specificamente per l’omicidio. Tutto già nel nostro Codice. In tutti i casi appena richiamati, se il giudice non si sottrae alle sue responsabilità (e se ci sono le prove), la pena è quella massima.
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