Ma cosa pensano gli italiani protetti? Che siano tutto uno scherzo la crisi economica, i soldi finiti, intere generazioni di adolescenti indotte a sfiorire sorridendo, ad infarcirsi di diplomi che attestano solo un perenne e mediocre apprendistato civile e culturale? Che siano uno scherzo la desertificazione della piccola e media impresa, il motore dell’Italia? Uno scherzo che abilità e conoscenze doviziosamente ricostruite per tutta la c.d. Prima Repubblica, rese moderne e persino avanguardistiche lungo una linea crescente durata fino a tutti gli anni ’80, “quando eravamo moderni”, siano poi state consegnate, con dissolutezza anarcoide, ad un boia multibrand e multinazionale? Uno scherzo la fine della Guerra Fredda, e della nostra posizione geopolitica primaria? Uno scherzo l’avvento dell’Euro e dei suoi processi inflattivi mascherati? Uno scherzo la stabile alterazione dell’equilibrio costituzionale fra i Poteri? Uno scherzo l’invettiva al posto del confronto, la maledizione al posto della competizione, lo slang nazistoide sugli “antropologicamente diversi” al posto della storica ma inappagata unità degli italiani? Tutto uno scherzo? A quanto pare sì.
Ma chi sono gli italiani protetti e perché dovrebbero sforzarsi di intendere che quanto sopra richiamato non è stato uno scherzo? Sono i pubblici dipendenti. Perché sono protetti? Perché dei tre paradigmi necessari per una vita materialmente serena, la sicura periodicità del reddito, la saldezza del datore di lavoro, l’ordinato insediamento territoriale dell’attività lavorativa svolta, oggi il pubblico dipendente può vantarli tutti. Ma solo lui, ed è questo il punto. Una simile condizione, nell’angusta ed incerta temperie socio-economica di questi magnifici anni eurofili e senza dogana, permette di riconoscere allo status giuridico-economico dei pubblici dipendenti un attributo qualitativo prezioso e, soprattutto, distintivo.
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