Nella primavera di duecento anni fa, a Vienna, si concluse nel modo previsto l’omonimo congresso iniziato nel novembre dell’anno prima. Si concluse secondo la volontà, soprattutto, di Gran Bretagna e Austria, fiancheggiate da Prussia, Russia, Spagna, Stato Vaticano, Stati tedeschi e circoli e correnti lombardo-venete prone dinanzi all’Impero Asburgico.
Sull’Europa fu quindi stesa una coltre spessa, gelida, pesante. Non fu ripristinato il dispotismo illuminato del Settecento: venne varata la assai cinica e brutale Reazione, intrisa di caratteri religiosi vicini alla superstizione, ancorati a dogmi per noi inaccettabili. Si affermò perciò (tranne che in Gran Bretagna) il concetto di Stato di polizia, Stato onnipresente, onnipotente, “guardiano”, “custode” davanti al quale ‘rigare dritto’, piegare, se necessario, la schiena; al quale dare insomma tutto di se stessi, e questo con gaudio, con ‘orgoglio’, con ‘fierezza’. Nacque così, più che altro nella Francia restituita alla monarchia dopo la caduta definitiva di Napoleone, nell’Impero asburgico, nello Stato della Chiesa e in Stati tedeschi la “stagione d’oro” di spie, delatori, ruffiani, doppiogiochisti: canaglie, insomma, della peggior specie.
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