Quasi trenta milioni di persone divise in un territorio compreso fra Iran, Iraq, Turchia e Siria: il popolo curdo, nonostante le sue dimensioni ed un carattere così fortemente identitario, non è mai riuscito ad ottenere la nascita ed il riconoscimento di un Kurdistan libero. I curdi, infatti, torneranno, quasi ciclicamente, in cima alle priorità del sistema internazionale: accadde alla fine della Prima Guerra Mondiale, poi ancora alla fine degli anni Novanta quando l’opinione pubblica internazionale venne galvanizzata dalle vicende del leader del PKK Abdullah Öchalan.
Accade, oggi più che mai, poiché è proprio sul popolo curdo che lo scacchiere internazionale conta per combattere il sedicente Stato Islamico. Ma questa prospettiva sembra svelare l’ennesimo groviglio che riaccende lo spauracchio di un conflitto mondiale e crea paradossi degni delle peggiori partite di Risiko. Perché se i curdi sono il “nostro” baluardo contro l’ISIS, la Turchia continua a perseguitarli alla stregua di terroristi. A questo si aggiunge il ruolo russo nell’area, con Putin coinvolto nella lotta all’ISIS ma irremovibile sull’atteggiamento nei confronti di Assad. Ne deriva un ulteriore paradosso: un indiretto avallo bipartisan al ruolo curdo nella zona. Ma gli Stati Uniti, ormai in tempesta elettorale sino a novembre, non possono dimenticare il ruolo turco nella NATO. Sembra una barzelletta, ma non lo è. Non si tratta di una nuova guerra fredda come si sono affrettati a sostenere in molti, alla ricerca di affascinanti similitudini: perché se Erdogan scegliesse di entrare pericolosamente in Siria per combattere i curdi, allora lo scontro est-ovest diventerebbe “caldo”, trascinando nel conflitto la Russia. E tutti noi.
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