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June 19, 2011
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June 19, 2011
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Obama scherza col fuoco

Stefano VaccaraIgnazio De MarcobyStefano Vaccara,Ignazio De Marcoand1 others
Time: 4 mins read

 

In questa colonna ci è venuto difficile criticare il Presidente Barack Obama perché siamo convinti che sia il leader giusto per salvare gli Stati Uniti. Come a FDR nel ’33, anche a questo presidente è toccato non far precipitare l’America sull’orlo dell’abbisso di una catastrofe finanziaria.
Ma questa settimana abbiamo anche visto come la sicurezza di Obama possa debordare in una fastidiosa per non dire pericolosa arroganza. Così sta avvenendo sulla questione del "War Powers Act", dell’obbligo del potere esecutivo di dover ottenere l’autorizzazione dal Congresso per continuare un conflitto armato come nel caso della Libia.
Barack Obama, con la sua ridicola risposta, ha praticamente insultato chi dal Congresso lo avvertiva che i tempi dei 60 giorni + 30 stavano per scadere e quindi doveva affrettarsi a chiedere l’autorizzazione. La sua replica, che non sarebbe tenuto a chiedere l’autorizzazione per continuare a coinvolgere le forze armate Usa in Libia perché queste non starebbero "combattendo" nelle operazioni della Nato, è stata stupefacente. Già, a chi spetta l’autorità di decidere quando impiegare le forze armate degli Stati Uniti all’estero? Tutti i presidenti hanno avuto sempre il vizietto di provarci con il Congresso sulla annosa questione, ma Obama sembra aver scelto l’approccio peggiore: quello di deridere invece che rispettare la Costituzione.
Per due secoli spesso il Congresso e la Casa Bianca si sono confrontati e Obama non fa eccezione. Ma la democrazia di questo paese, a differenza di altri dove la democrazia spesso traballa, si fonda sul rispetto della Costituzione. Quasi tutti i presidenti della storia americana hanno tentato di intrerpretare il potere di "fare la guerra" come una prerogativa del potere esecutivo, ma il Congresso metterà a cuccia chi addirittura tenta di prenderlo in giro.
Nel 1797, George Washington e altri cinquantaquattro delegati, apposero la firma ad un documento che proclamava il presidente comandante in capo delle Forze Armate (art II sez. 2), ma che allo stesso tempo rimetteva esclusivamente al Congresso l’autorità di dichiarare guerra (art 1, sez. 8). A Filadelfia si capì che sarebbe stato inevitabile garantire all’esecutivo l’autorità di mobilitare e dirigere le forze armate del paese in caso di aggressione, ma si volle anche evitare di dare al presidente il potere di trascinare la nazione in un conflitto. Per questo motivo prima della firma i delegati cambiarono una prima versione della Costituzione in cui si dava al Congresso l’autorità di "make war", fare la guerra, con le parole "declare war", proprio per evitare l’assurdità di dover attendere la riunione di un’assemblea legislativa per poter rispondere ad una aggressione.
Ma nella Costituzione non c’è traccia che i padri fondatori degli Stati Uniti intendessero estendere al "Commander in Chief" il potere di "make war" al di fuori di una situazione in cui la sicurezza nazionale o la sicurezza di cittadini americani all’estero fosse in grave pericolo.
Fin dai tempi di George Washington il pragmatismo ha prevalso e l’esecutivo ha beneficiato di un elevato grado di libertà in materia. In più di duecento anni le truppe e le navi degli Stati Uniti quando si sono mosse non hanno avuto bisogno del visto del Congresso.
Gli esempi non mancano. Così quando Eisenhower decise in solitudine, nell’estate del 1958, di far sbarcare 5000 marines nelle spiagge del Libano per proteggere il governo di Camille Chemoun, egli reagì alle critiche del Congresso ribadendo alla nazione le sue prerogative di "Commander in Chief", come fece anche Bush padre quando spedì ben 600 mila soldati nel deserto saudita per la prima guerra del golfo.
Già nel 1973, per le profonde ferite della guerra del Vietnam, il Congresso fece il tentativo di riprendersi l’autorità approvando il "War Powers Act" che cercò così di restringere l’uso presidenziale delle forze armate in mancanza di una dichiarazione di guerra a 60 giorni, con la possibilità di estendere il periodo al massimo a 90. Molti presidenti hanno tentato in passato di tacciare il "War Powers Act" di incostituzionalità, ma hanno perso.
Ora Obama, ex professore di diritto costituzionale, che sa bene che non può tentare la vecchia strada del "Io sono il Commander in Chief", allora che ti fa? Invece di sottoporsi al voto del Congresso, lo deride e insulta pure la Costituzione americana con la ridicola affermazione che gli Usa non stanno sparando….
Obama spieghi al Congresso le ragioni del perché la campagna militare della Nato in Libia autorizzata dalle Nazioni Unite debba continuare (anche se l’Unione africana ha appena protestato al Consiglio di Sicurezza che l’intervento non sta rispettando le limitazioni della risoluzione 1973) e si conquisti l’autorizzazione a proseguire. O forse ha paura di non riuscire ad averli più quei voti? Per Obama sarebbe comunque meno grave rischiare la "ritirata" imposta dal Congresso, che calpestare la Costituzione.
 
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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e dirigo La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

Ignazio De Marco

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