A metà dicembre Fondo Monetario Internazionale (Fmi) e Unione Europea (Ue) hanno sospeso la trattativa con Budapest sull’aiuto finanziario, tra i 10 e i 20 miliardi di euro, necessario a far riprendere fiato al bilancio dello stato: non si sono ravvisate garanzie sull’indipendenza della Banca d’Ungheria, “commissariata” dal governo con un nuovo vice-governatore. A metà gennaio, la Commissione europea ha aperto contro l’Ungheria tre procedure di infrazione sulla base dell’art. 258 del trattato, per provvedimenti su anticipazione dell’età pensionabile dei magistrati da 70 a 62 anni, controllo dell’Autorità per la privacy e la protezione dati, indipendenza della Banca centrale. Le misure del governo di Viktor Orbán stanno isolando in una deriva populista e nazionalista l’Ungheria, nel pieno della sua peggiore crisi finanziaria e commerciale: non si dimentichi che l’art. 7 del trattato sull’Unione prevede sanzioni sino alla sospensione del diritto di voto per chi viola i principi fondamentali. Le pressioni liberali e liberiste di Fmi e Ue hanno umiliato e sorpreso gli elettori che nell’aprile 2010 hanno dato la maggioranza di due terzi all’attuale governo, nel segno anche di fantasmi che percorrono la memoria collettiva da quasi un secolo, dagli accordi del Trianon del 4 giugno 1920. L’esito della Prima Guerra Mondiale e la spartizione definitiva dell’ex impero austroungarico, alla base di un nazionalismo magiaro troppo spesso macchiato da posizioni fascistoidi e razziste, comportò pesanti riduzioni di territorio: il Banato fu diviso tra Iugoslavia e Romania, Voivodina Slavonia e Rjeka assegnate alla Iugoslavia, la Transilvania andò alla Romania, Slovacchia e Rutenia alla Cecoslovacchia, zolle di settentrione alla Polonia. Contestualmente la popolazione passò da 18 a 7,5 milioni, lasciando oltreconfine minoranze inquiete e scioviniste. La disgrazia per un paese che, anche per il fardello della storia, ha documentato per decenni il più alto tasso di suicidi in Europa, è di aver scelto alle ultime elezioni, di fronte al pessimo bilancio del governo socialista, di curare le proprie ferite consegnandosi ancora una volta a demagoghi del “nazionalismo vittimista” (definizione da Romano, Corsera di mercoledì). Eppure i disastri causati dal patriottismo filofascista e revanchista di Horthy, e dalle filonaziste “Croci frecciate” di Szalasi, che contribuirono alla consegna dell’Ungheria ai sovietici nel secondo dopoguerra, avrebbero dovuto essere lezioni sufficienti. L’Ungheria, ed è un ragionamento valido per tutti i paesi arrivati in Ue dall’ex impero sovietico, deve affogare miti e sogni di rivincita nel grande calderone della costruzione dell’Ue, affratellare le sue molteplici tradizioni e culture e portarle alla cooperazione convinta con i popoli vicini, aggredendo con decisione le cause vere di una crisi che è morale prima che economica. Non sono né la stampa interna ed estera, né i giudici, né l’autonomia della Banca centrale i nemici del paese, ma la corruzione (a parti demerito dell’Italia, tra i peggiori in Ue), l’assistenzialismo e lo statalismo, l’incapacità a connettersi e competere con il mondo di questo secolo. A detti problemi, l’orientamento piuttosto autoritario della costituzione preparata da Orbán, in vigore da un mese, non offre risposta. Non casualmente il Consiglio dei ministri Economia e Finanze Ue, ha appena deciso un’ulteriore procedura d’infrazione, per non aver fatto Budapest abbastanza per ricondurre il rapporto deficit/pil sotto il 3%, come previsto dal trattato di Maastricht. L’inadempienza potrà costare il congelamento dei fondi Ue dal 2013.