Sono tornato al Nord. In quello più ricco, entusiasmante e caotico. Sono tornato a New York. Dopo quattro intensi anni d’Africa con le Nazioni Unite. E dopo aver tanto viaggiato. Il lavoro mi ha portato a camminare per le strade di Abuja, Banjul, Rabat, Lilongwe, Gaborone e Arusha. Ho annusato gli odori e il caldo di Khartoum, l’oceano di Dakar. Ho sudato nel traffico di Luanda e Nairobi. E in quello del Cairo. Ho visto le navi e i mercantili del porto di Gibuti, con i suoi marinai, i suoi militari. E le sue puttane. Mi sono inzuppato nella pioggia di Addis Abeba, la mia base africana, economicamente esplosa, in soli 4 anni, a suon di cemento e infrastrutture. Mi son fatto acciecare dal verde di Kampala. Ed ho sentito la vergogna per le violenze del Ruanda. Ho guardato dall’alto la baia d’Algeri, immaginando le violenze che l’ hanno percorsa negli ultimi 60 anni. Sono stato a Johannesburg, Pretoria e Soweto. Ho respirato il dramma dell’appartheid e l’epopea di Nelson Mandela. Ho visto infine cinesi, coreani, brasiliani, indiani, arabi del golfo e filippini mescolarsi, piano piano, alla vita africana, portando nel continente esperienze controverse di economie e società emergenti.
Posso dire di averla conosciuta un po', l’Africa. Nella sua complessa diversità. Di popoli ed etnie. Credenze e religioni. Di donne e di uomini. Di giovani e bambini, spesso ai margini delle strade. Come della vita. Una complessità, quella dell’Africa, fatta di lingue e dialetti. Di povertà e voglia di riscatto. Di ricchezza per pochi. E delle pochezza dei ricchi, spesso bianchi e occidentali. Ne ho incontrati molti di bianchi, sinceramente ispirati dalla volontà di aiutare. Ma anche altri, tanti altri, davvero troppo convinti di afferrarla, l’Africa, con qualche dollaro in più.
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